San Giovanni Bosco
Ragazzi in prigione
L'impressione più sconvolgente, don Bosco la provò entrando nelle prigioni. Scrisse: «Vedere un numero grande di giovanetti, dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d'ingegno sveglio, vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu cosa che mi fece orrore».
Uscendo, aveva preso la sua decisione: «Devo impedire ad ogni costo che ragazzi così giovani finiscano là dentro». Le parrocchie in Torino erano 16. I parroci sentivano il problema dei giovani, ma li aspettavano nelle sacrestie e nelle chiese per i catechismi comandati. Non si accorgevano che, sotto l'ondata della crescita popolare e dell'immigrazione, quegli schemi di comportamento erano saltati. Occorreva tentare vie diverse, inventare schemi nuovi, provare un apostolato volante tra botteghe, officine, mercati. Molti preti giovani ci provavano.
Don Bosco avvicinò il primo ragazzo immigrato 1'8 dicembre 1841. Tre giorni dopo attorno a lui erano in nove, tre mesi dopo venticinque, nell'estate ottanta. «Erano selciatori, scalpellini, muratori, stuccatori che venivano da paesi lontani», ricorda nelle sue brevi Memorie.
Nasce il suo oratorio. Non è una faccenda di beneficenza, né si esaurisce alla domenica. Cercare un lavoro per chi non ne ha, ottenere condizioni migliori per chi è già occupato, fare scuola dopo il lavoro ai più volenterosi diventa l'occupazione fissa di don Bosco.
Alcuni dei suoi ragazzi, però, alla sera non sanno dove andare a dormire. Finiscono sotto i ponti o negli squallidi dormitori pubblici. Tenta due volte di dare ospitalità: la prima gli portano via le coperte, la seconda gli svuotano anche il piccolo fienile. Ritenta, ottimista testardo. Nel maggio 1847 ospita nelle tre stanze che ha affittato nel quartiere basso di Valdocco, e dove abita con sua madre, un ragazzotto immigrato dalla Valsesia. - Avevo tre lire quando sono arrivato a Torino - dice il ragazzo seduto accanto a fuoco, ma non ho trovato lavoro, e non so dove andare.